Ursula Beretta

C’era una volta il nero, il colore prediletto di quelli che la moda la facevano e la seguivano che, come una divisa, tracciava segni e disegni, stabilendo un confine da una parte e una certezza dall’altra. Una sorta di coperta di Linus dell’eleganza, che rifuggiva dagli strilli inutili e chiassosi di un certo milieu per porsi come un unicum al quale rifarsi.  E omologarsi. Del resto, Baldassarre Castiglione era stato chiaro: nell’abbigliamento il nero è più piacevole di qualsiasi altro colore. Punto e a capo. Una lezione che, quasi cinque secoli dopo, Gabrielle Coco Chanel apprese alla perfezione, facendosi interprete dell’esigenza dell’epoca – un’eleganza per tutti, lo stile décontracté, una certa qual voglia di morigerata compostezza derivante dall’immediato dopoguerra, la necessità di indossare qualcosa di funzionale e non mortificante – e racchiudendola nella petite robe noire, il vestito femminile per antonomasia.  Naturalmente nero. Inutile ricordare come gli altri couturier l’avessero imitata immediatamente alla stregua di un faro. In primis Christian Dior con il suo leggendario New Look ricco di modelli neri che potevano essere portati in qualsiasi momento della giornata e a ogni età. Del resto, il nero è un colore felice (Azedine Alaia dixit) ma, al netto dell’attrazione inesorabile e sempre crescente che è stato in grado di esercitare, non è rimasto il solo nella moda. Nel tempo, il suo coté democratico e sensuale è esploso, ha assunto significati differenti, spesso contradditori, facendosi sinonimo di mistero come di eleganza, di ricchezza e del suo esatto contrario (erano neri gli abiti del popolo che non mostravano la sporcizia), di passione come di castità – Marylin Monroe versus gli alti prelati, per intenderci. E ha lasciato spazio a un universo cromatico sfaccettato e dalla narrazione altrettanto avvincente, che ha saputo accompagnare l’evoluzione della moda riflettendola, appunto, nei suoi cromatismi. Ma la moda e le sue tinte non vivono nel vuoto: specchio della società che la crea, è essa stessa sottoposta a un divenire continuo e sfuggente. Questione di sfumature, appunto. E se ogni periodo storico ha avuto la sua tinta feticcio ed è altresì vero che il colore che identifica l’oggi è una palette arcobaleno (al netto delle motivazioni simboliche), c’è un altro, ulteriore aspetto che ha preso piede in relazione alla questione cromatica, sempre presente ma in realtà mai così forte.  Il fatto, cioè, che ogni (big) marchio di moda sia sempre più connotato da un colore. E non solo. Perché l’evoluzione immediatamente successiva a questa è stata la creazione di una sfumatura di colore personalizzata per ogni maison, un unicum in grado di caratterizzarne ulteriormente lo stile in termini di identità e soprattutto di esclusività, con buona pace delle presunte derive mainstream della moda. Ultimo, in ordine di tempo, è stato Sabato De Sarno. Il fresco direttore creativo di Gucci ha esordito sulla passerella di settembre con la sua collezione di debutto accompagnata dal suo primo colore, quel Rosso Ancora, una sorta di rosso cupo tendente al marrone con lampi bordeaux che è diventata presto la tinta di riferimento del brand dalla doppia G. La sua anima richiama tanto le pareti dell’ascensore del Savoy di Londra in cui Guccio Gucci lavorava e che gli diede l’idea di creare un brand di valigeria, quanto i molti pezzi d’archivio a cui De Sarno ha guardato come a un oracolo. Del resto, il designer è stato allievo per oltre quattordici anni di un altro rivoluzionario dei colori, ovvero Pier Paolo Piccioli che alla leggendaria cifra stilistica, ops, cromatica della maison, vale a dire il rosso Valentino, ha affiancato il Pink PP, quel rosa acceso che nella scorsa stagione, molto prima del Barbiecore, era davvero ovunque. Ma che i direttori creativi siano un po’ dei rabdomanti del colore è oramai un fatto assodato. Daniel Lee ha una vera e propria passione per la tavolozza: se da Bottega Veneta aveva imposto tra la classicità delle tinte comunemente accolte dalla maison il verde Bottega, oggi emblema del brand tanto quanto le sue borse intrecciate, appena arrivato da Burberry il creativo ha ridisegnato il check identitario del colosso inglese all’insegna del blu cobalto. Presente e passato, naturalmente. Del resto, non tutti sanno che il celebre arancione Hermès nacque da una necessità, quella cioè di sopperire alle scatole beige profilate di marron che, fino al 1945, ne avevano definito l’eleganza ma che, introvabili a causa della guerra, furono sostituite dall’unico packaging disponibile, un arancione che nessuno voleva e che, da un giorno all’altro, si trasformò nella firma del brand. E poi c’è Tiffany, che ha fatto del color uova di pettirosso, irresistibile signature delle sue scatole, il suo simbolo da sempre. C’è Christian Louboutin che ha scritto la storia con le suole rosse delle sue scarpe. C’è Giorgio Armani con la poetica del suo greige che l’ha accompagnato fin dalle origini e che incarna perfettamente la sua filosofia no season…

E se questa digressione sui colori potrebbe sembrare un discorso rivolto esclusivamente agli addetti ai lavori, i fatti – e il quotidiano – dimostrano che non è così. Le tinte, esattamente come altri dettagli più o meno macroscopici, hanno il potere di definire un brand e possiedono un coefficiente di attrazione non indifferente che, nel corso del tempo, si è fatto man mano più strategico ed emotivamente impattante. Oltre al fatto, non trascurabile, che i colori permettono di contribuire in maniera efficace a far notare i brand sul mercato. E quale strategia migliore se non quella cromatica per farsi riconoscere… a colpo d’occhio? Non è un caso che la maggior parte degli acquisti sia determinata, in prima battuta, dal colore dell’oggetto più che dai suoi dettagli. Ed è evidente quanto la brand awareness tragga beneficio da un’identità amplificata dal rifarsi a un’unica nuance: esalta il suo DNA, colpisce il pubblico, crea quell’idea di coerenza di marca che attraversa il tempo e dona solidità…

Quale sarà la direzione – cromatica, of course! – del futuro? I pareri sono discordanti: sempre più esclusività di colore versus anarchia cromatica assoluta versus predilezione per le tinte naturali in linea con l’approccio sostenibile. Una cosa sola è certa, la libertà di essere quello che si vuole passa anche, e soprattutto, dalla sfumatura che le diamo. Che è squisitamente e totalmente nostra.

Artwork by Joe Colosimo