Giulio Alberoni

Era la seconda metà degli anni ‘90. Avevo grosso modo vent’anni, quando fui incaricato dal patrigno della mia fidanzata di allora, di comprare dei limoni di Sorrento per fare il limoncello. Lui era di Sorrento. I limoni li aveva nel sangue. Metaforicamente. Credo che nel sangue avesse al massimo del colesterolo. Il compito non era certo dei più gravosi, ma era di sicuro un affa- re da cerchio della fiducia. Sapevo in che ipermercato andare, sapevo cosa comprare e quanto comprarne. Era impossibile sbagliare. Prendo la Turbinosa, la mia scoppiettante auto dell’epoca, e vado all’Ipermercato Montebello. Faccio incetta dei limoni che mi sono stati richiesti, me li faccio pesare, e vado in cassa. Pago e torno alla Turbinosa per andare a consegnare i limoni di Sorrento al suddetto patrigno, nella ridente San Sebastiano Curone. Esiste veramente, non è un posto inventato come Vigata o l’isola che non c’è. Del resto, se esiste Montebello, può esistere anche San Sebastiano Curone. Sono faceto e allegro, baciato da un sole appenninico screziato di verde, quando durante il tragitto mi cade l’occhio sul sacchetto di limoni. O meglio, sull’etichetta apposta sul sacchetto di limoni. C’era scritto “limoni biologici origine Argentina”. Oh my God! Non erano i limoni di Sorrento!!! Qualche impostore aveva messo dei limoni Argentini dove fino a qualche giorno prima c’erano i limoni di Sorrento. Li avevo presi nello stesso identico posto. Panico! “Ades- so cosa faccio?!? Ormai li ho pagati. Ero convinto fossero quelli giusti”. Dopo aver scartato sia l’ipotesi di fingere un’effrazione alla macchina o una rapina a mano armata finalizzata al solo furto dei limoni di Sorrento, sia la simulazione di un incidente in cui l’unica vittima sarebbero stati sempre quei limoni, decido di portarli a San Sebastiano Curone facendo finta di niente. Mi dissi: “Farò finta di non essermene accorto e con quei limoni senza pedigree potranno comunque farci altro”. Arrivo nella (abbastanza) amena località piemontese dove ad ac- cogliere i limoni – non erano lì per me, ma per gli agrumi – c’è un comitato di ricevimento in pompa magna.

L’entusiasmo è tale che nessuno legge quell’etichetta che, anzi, finisce immediatamente nel cestino insieme al sacchetto. I limoni sono posti in un cestino di vimini e da quel momento in poi inizia una serie interminabile di elogi in crescendo per magnificare que- gli agrumi. “Vedi, solo a Sorrento hanno questa buccia e questo colore. E la forma? Inconfondibile. Questi sono i veri limoni, non quella robaccia del supermercato che non si sa da dove venga. Il vero limone è questo, il limone di Sorrento”. In effetti, io quei limoni non sapevo esattamente da dove venissero, se da Tucuman o da qualche altra regione del nord dell’Argentina, ma certamente non hanno mai visto la Campania né Sorrento… neppure in cartolina. E quei poveri limoni, abituati all’idioma sud-americano erano cer- tamente più spiazzati di me, perché non capivano una parola di quello che quell’uomo stava dicendo loro con tanto amore. Ero sicuro che la frode alimentare sarebbe stata svelata al momento dell’assaggio, nel momento decisivo. Il momento della verità. Invece la litania proseguì con lo stesso tono: “…e senti il sapore. Sono dolci. Nessun altro limone è così dolce. Questi si possono mangiare così come sono perché sono dolcissimi. È la terra della Costiera che fa la differenza. Quella terra e quel sole ci sono solo lì ….Vide ‘o mare quant’è bello, Spira tanto sentimento… Comme tu, a chi tiene mente, Ca scetato ‘o faje sunnà…”.

Ecco, è esattamente in quel momento, che ho scoperto l’importanza della narrazione intesa come storia, creatività, arte e fantasia. Fino ad allora pensavo che il narrare, soprattutto nel contesto del commercio e della pubblicità, avesse un’importanza relativa, che fosse una componente un po’ sopravvalutata della nostra civiltà. È ovvio che si venda il detersivo MacchiaRaus se passano la pubblicità su tutte le reti televisive nazionali 24 volte in un’ora. In quel momento, assaggiando una fetta di limone di Sorrento come il radiatore di una Fiat Uno, ho capito che per noi, per gli Homo Sapiens Sapiens, ogni cosa si compone di una parte oggettiva e una narrativa. Le due possono essere in armonia oppure una può prevalere sull’altra. Se è la narrazione a primeggiare, come nel caso dei limoni di San Sebastiano Curone, a essere coinvolto è il cuore, la passione. Nel caso opposto, invece, quando prevale la componente oggettiva, c’è poco o scarso coinvolgimento da parte nostra, della nostra mente. Tutto quanto presenta un’alta componente oggettiva ci interessa meno. Non prevede la componente immaginifica e fantasiosa infusa dalla narrazione, ad esempio, una lampadina o il contenitore dell’umido. Ma fai disegnare un contenitore dell’umido a Philippe Starck e immediatamente l’equilibrio tra componente oggettiva e narrazione si rimescolano, la narrazione ha il sopravvento, e la gente impazzisce per il contenitore dove butta gli scarti delle patate e le lische del pesce. È il nostro cervello ad essere predisposto a questo movimento. Vogliamo che in qualche modo le cose abbiano una loro storia, una loro vita, che posseggano qualcuna delle componenti delle nostre vite: fantasia, creatività, storia, arte… che ci assomiglino. Che abbiano un’anima. I limoni Argentini portati a quel pover’uomo non erano di Sorrento, ma narravano comunque Sorrento, i suoi colori, il suo mare, la sua millenaria civiltà. Per lui erano più limoni di Sorrento quelli che gli avevo portato io, rispetto ai veri limoni di Sorrento.

È la narrazione a prevalere sulla componente oggettiva. Di certo non è giusto prevalga in eccesso. Come ho detto, è l’equilibrio tra le due componenti a creare il mix perfetto che ha più successo presso i nostri esigenti neuroni. Una componente può prevalere, ma se si eccede dal lato oggettivo la cosa ha per noi il valore di uno stuzzicadenti, se invece, all’opposto, prevale la com- ponente narrativa, il rischio è che si superi il livello del credibile. Spesso una narrazione è una creazione collettiva, impiega decenni o secoli a formarsi, ma è altrettanto comune che a crearla sia un singolo, capace di non esagerare. Altrimenti si perde di credibilità, si supera per l’appunto il livello del credibile. La narrazione deve essere vera o quantomeno verosimile. Dato che eravamo rimasti nel basso Piemonte, non spostiamoci tanto da San Sebastiano Curone. Non lontano da lì, infatti, si pro- duce un formaggio che prende il nome dal suo luogo di origine: Montebore. Il Montebore è un formaggio molto particolare. È a for- ma di torta nuziale. È formato da tre forme di formaggio di dimen- sioni differenti, sovrapposte e fatte stagionare insieme e quindi fuse tra loro. Il Montebore fu creato con quella particolare forma di torta nuziale nel 1489 per festeggiare il matrimonio tra il Duca di Milano e Isabella d’Aragona. Da allora quel formaggio nuziale sopravvive, anche se recentemente ha rischiato di essere dimenticato e scom- parire. Io adoro il Montebore, ma la narrazione che lo accompagna, quella ufficiale, esprimerebbe un vero e proprio miracolo storico. Sì, perché la prima torta nuziale a piani, a forma di Montebore per intenderci, è stata creata nel 1840, e fu preparata in Inghilterra per essere servita al matrimonio della futura regina Vittoria con il suo amato Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha. Ecco, quindi, che o a Montebore erano talmente lungimiranti da anticipare la storia di 350 anni, oppure chi si è occupato della comunicazione del formaggio si è fatto prendere la mano dalla componente narrativa. 

Fortunatamente in pochi conoscono dettagli trascurabili della storia, come la creazione della prima torta nuziale a piani, ma un errore del genere potrebbe danneggiare il prodotto narrato perché a quel punto tutta la vicenda e il prodotto stesso perderebbero di credibilità. Il Montebore è nato per caso, qualcuno ha sovrapposto delle forme di formaggio e ha visto che così composte erano belle. Siamo nel paese della bellezza, di Caravaggio, di Botticelli, di Leonardo, di Giò Ponti e di Ettore Sottsass. Questo è sufficiente. È già narrazione, il Montebore probabilmente è uno dei primi prodotti gastronomici in cui è stato applicato un concetto estetico, di design. La componente narrativa della bellezza che prevale su quella oggetti- va della nutrizione per la sopravvivenza. Il Montebore è architettura gastronomica. Un design anticoed e hypermoderno al contempo. Rivoluzionario! Non è magia narrativa questa? La sua narrazione è già racchiusa nel prodotto, basta solo individuarla e mostrarla al pubblico. Io ho parlato di cibo, ma lo stesso vale per qualsiasi altra cosa, un paio di scarpe, una borsa, una barca, una macchina, degli occhiali. Il successo di ciascuna di queste cose sta nell’equilibrio tra compo- nente oggettiva e componente narrativa. Più un oggetto è lussuoso o coinvolgente, più la bilancia deve oscillare verso la narrazione. Ma senza esagerare. Rimaniamo veri o quantomeno verosimili.

Artwork by Joe Colosimo