Sono aziende con una forte solidità patrimoniale quelle che stanno affrontando la pandemia in Italia, nonostante un decennio di crescita lenta non sia riuscito a riportare la redditività ai livelli pre-crisi finanziaria. Purtroppo, ciò non basterà per reggere l’impatto di quest'emergenza sanitaria, che ha implicazioni economiche mai viste prima.
Il Rapporto Cerved PMI 2020 stima che il fatturato delle piccole e medie imprese diminuirà nel 2020 di 11 punti percentuali (fino a 16,3% nel caso di ulteriori lockdown) e la redditività lorda del 19%. Una simulazione condotta da Cerved, nota agenzia di informazioni commerciali, sul totale delle imprese private, quindi non solo PMI, prevede poi che a fine 2021 vadano persi 1,4 milioni di posti di lavoro e si abbia una riduzione del capitale di 47 miliardi di euro (il 5,3% del valore delle immobilizzazioni) qualora, una volta cessate le attuali misure di sostegno, non ci siano prospettive di rilancio. Con nuove chiusure, i disoccupati salirebbero a 1,9 milioni, e a 68 i miliardi in meno di capitale (7,7%).

Andrea Mignanelli

Finora gli impatti della pandemia sono stati mitigati dai provvedimenti di emergenza, come l’estensione della Cassa Integrazione e gli interventi sulle garanzie pubbliche: nel 2020, dunque, nonostante i forti segnali di difficoltà la maggior parte delle PMI italiane chiuderà l’anno in pareggio o in utile e gli indici di redditività, pur crollando rispetto al 2019, risulteranno in media ancora positivi. Ma quando queste misure avranno fine, gli effetti della crisi potrebbero manifestarsi in maniera assai più rilevante: senza prospettive di rilancio, molti imprenditori potrebbero licenziare o dover chiudere le proprie attività. Sarà quindi decisivo, tra le altre misure di sostegno, il NextGenerationEU, il piano di finanziamenti per la ripresa dell’Europa (750 miliardi di euro, di cui 209 da destinare all’Italia) che ha messo al centro la sostenibilità e la digitalizzazione delle aziende. 

“Gli effetti saranno fortemente asimmetrici – commenta Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved -. Alcuni settori subiranno conseguenze devastanti, mentre altri (pochi) potrebbero addirittura trarne vantaggio. Oltre la metà dell’occupazione andrà persa nei 10 comparti più colpiti, viceversa in quelli anticiclici l’incremento risulterà molto contenuto. Tra questi anche la moda che potrebbe lasciare per strada dal 14,7% al 20,5% dei propri lavoratori”.

Carlo Capasa

LA MODA IN PRIMO PIANO
Dati sconfortanti sottolineati anche da Carlo Capasa, presidente di Camera Nazionale della Moda Italiana, durante il Milano Fashion Global Summit 2020: “In questo momento la Cina sta riprendendosi molto bene, così come la Corea. Il Giappone tiene, mentre gli USA pur in difficoltà, resistono grazie al digitale. È l’Europa a risultare in fortissima crisi.
E se anche nel 2021 ci aspettiamo un buon rimbalzo, con perdite attorno al 12%, per poi tornare alla normalità nel 2022, bisogna comunque porsi con forza una domanda: siamo sicuri che l’Italia sia il paese della moda? Siamo veramente considerati strategici? Siamo primi in Europa con il 41% della produzione e 1 milione e 200 mila sono i lavoratori legati alla produzione, al commercio e ai servizi. Ma non siamo considerati da Governo e Associazioni. Se nel 2020 la moda calerà di circa il 30% (29 miliardi), va notato che tutto il settore del design arredamento cuba meno di quanto noi perderemo”.
Capasa individua anche alcune possibili iniziative da mettere in campo: “Più della metà del fatturato della moda italiana è realizzato da grandi brand che trainano la filiera e le piccole/medie realtà manifatturiere. Questi grossi nomi non sono stati per nulla aiutati dal Governo. Andrebbero prese in esame anche le loro difficoltà.
I codici ATECO sono medioevali. Sarà anche giusto chiudere i negozi, ma perché chiudere gli showroom dove si lavora con e per il digitale, cercando di vendere a quei mercati lontani che ancora comprano.
Non guasterebbe anche una maggior flessibilità nella gestione della Cassa Integrazione. In preparazione dei campionari bisognerebbe consentire gli straordinari ai modellisti, per esempio.
Noi non ci arrenderemo e continueremo a sottoporre proposte forti alle istituzioni in ottica di digitalizzazione e formazione”.

Diego Della Valle

LA ENTERTAINMENT COMPANY DI DELLA VALLE
Ma, oltre al cambio di passo chiesto alla politica, anche gli imprenditori dovranno pensare a mutare il proprio modello di business.
Da Tod’s ci stavano pensando ancor prima del Covid-19, secondo quanto dichiarato da Diego Della Valle: “Ancor prima che iniziasse questo difficilissimo 2020 avevamo iniziato a cambiare pelle. La nostra idea è di trasformarci in un’azienda che non parla più solo al consumatore tipico del nostro gruppo, che compra le cose più belle e italiane. Vogliamo coinvolgere anche un consumatore giovane – in questo preciso momento cinese, ma poi diverrà internazionale – che comunica con un linguaggio diverso, veloce e digitale.
Non abbandoneremo certo l’heritage che ci distingue, ma ormai non possiamo più essere solo un’azienda che produce. Lo rimarremo per metà, l’altra metà della società sarà dedicata a comunicare. Vogliamo rimanere quello che siamo, ma molto più bravi a non farci dimenticare dal mercato. Immaginiamo i nostri marchi come di super nicchia, speciali e specializzati, caratterizzati da ottime doti comunicative, non convenzionali ed efficaci. Creatività, made in Italy, heritage, progetti speciali e capsule collection, queste sono le nostre parole chiave di domani. Non voglio si pensi a noi come al gruppo più grande o a quello più di moda, bensì a quello più speciale”.
Cambiamenti che qualcuno definirebbe epocali. Non so quanti avrebbero mai immaginato che un calzaturificio si muovesse per trasformarsi in una entertainment company.
Ma i cambiamenti non coinvolgono solo la comunicazione, toccano anche la struttura distributiva: “Ci stiamo sempre più strutturando per l’omnicanalità. È un nuovo mestiere che dobbiamo imparare sempre meglio. Ci sta fornendo ottimi riscontri e, per me, è come se si avverasse un sogno: quando agli inizi dovevo fare la fila di fronte ai commercianti per convincerli a comprare il mio prodotto, fantasticavo di poter parlare direttamente con il consumatore finale. Ora sta accadendo, anche se i negozi non moriranno mai del tutto”.
Mutamenti in vista anche per i mercati? “Il mercato cinese, in questo momento, ci ha salvato la vita. È il mercato più giovane e promettente in termini di sviluppo. Senza dubbio diverrà il primo mercato a cui guardare. Ma vorrei riequilibrare le nostre vendite anche su Asia e Stati Uniti. Gli USA sono senza dubbio il mercato più difficile, ma potrebbe essere anche ben penetrato proprio grazie all’e-commerce e a un ottimo lavoro di brand awareness”.

Renzo Rosso

RENZO ROSSO STAVA PER LASCIARE
“Per fortuna la moda sta cambiando – ha dichiarato Renzo Rosso. Era diventata troppo in tutto. Me ne ero quasi disamorato e stavo per mollare. Questa terribile situazione ci rende molto più sensati, concreti, pratici e non eccessivi. A inizio pandemia, dopo aver messo tutti in sicurezza, abbiamo tagliato i costi, eliminato il superfluo. È così che la moda può tornare a essere più simpatica e interessante”.
Per Only The Brave non si è solo trattato di ridurre, ma anche di investire in innovazione: “Abbiamo digitalizzato il più possibile il nostro flusso di lavoro, realizzando, per esempio, un avatar per ogni brand su cui sviluppare le collezioni. Così siamo diventati più efficienti e sostenibili”.
Poi si arriva al digitale nella vendita: “Il nostro progetto sull’omnicanalità è sbarcato anche in Europa. Un esempio: possiamo effettuare un cambio prodotto addirittura in 2 ore, a prescindere da dove sia stato acquistato (in un nostro negozio, in un grande magazzino, oppure online). Il centro delle vendite del futuro è un CRM sempre più accurato su cui lavoreranno venditori diretti, ognuno con 200 clienti, di cui conosceremo vita, morte e miracoli, e a cui proporre le novità in modo assolutamente personalizzato”.
Per quanto riguarda i mercati, Rosso la vede come Della Valle: “La Cina è senza dubbio il futuro, mentre il Giappone rappresenta il 25% del nostro fatturato attuale. L’Asia, insomma, è la nostra salvezza. L’Europa non va dimenticata, ma probabilmente ridimensionata e mantenuta come vetrina e banco di prova per le nuove iniziative esperienziali da proporre, poi, altrove”.
Alla domanda su cosa servirebbe all’Italia in questo momento, risponde deciso: “Serietà, brave persone, concrete e visionarie, alla guida del Paese. E poi puntare sulla sostenibilità. Un tema altamente complesso, che prima di riguardare i prodotti ha a che fare con un modo di vivere dal forte impatto sociale. Puntare su questo tema potrebbe cambiare profondamente il Paese”.