Il motivo è sicuramente rappresentato dal fatto che il tessuto imprenditoriale del Paese si compone per più del 90% di piccole e medie imprese. Le stesse che nell’anno della pandemia hanno compiuto un piccolo passo avanti e hanno iniziato un processo di digitalizzazione per sopravvivere a un lungo periodo di crisi. Una digitalizzazione che ha coinvolto soprattutto processi di vendita digitale e di marketing.

L’Italia a che punto è?
La pandemia, a livello globale, ha rappresentato un’enorme spinta propulsiva alla digitalizzazione. Si attesta, infatti, in uno studio elaborato da Markets and Markets, un aumento della spesa per la digitalizzazione che passerà da 521 a 1250 miliardi entro il 2026, con un incremento medio anno su anno del 19%.  In Italia, invece, nel 2021, secondo il Rapporto Istat, il 60,3% delle piccole e medie imprese ha raggiunto almeno un livello base di intensità digitale. Questo significa che per quasi due aziende su tre, ovvero per il 60%, l’infrastruttura digitale resta un problema. Stiamo parlando di 206 mila imprese, meno del 5% del totale di imprese attive, che da sole contribuiscono a oltre il 41% dell’intero fatturato generato.
Sì, perché non basta aver digitalizzato i processi di vendita online, per garantire una reale transizione è necessario occuparsi anche dei processi produttivi, amministrativi, della gestione delle risorse umane e degli aspetti legali. Anche in termini di integrazione delle tecnologie digitali e percorsi di digitalizzazione, le piccole e medie imprese sembrano ferme al palo. Sono notevoli i ritardi, specie in materia di presenza sul web, analisi di Big Data e infrastrutture tecnologiche avanzate.
Serve dunque una maggiore spinta propulsiva. Solo così sarà possibile raggiungere l’obiettivo numero 9 della Agenda 2030, ovvero costruire un’infrastruttura resiliente e promuovere l’industrializzazione inclusiva e sostenibile e sostenere l’innovazione. L’Italia è, evidentemente, in ritardo. Un vero peccato visto che, secondo una stima elaborata della Commissione Europea, il valore della data economy passerà dal 2,4% del 2018 al 5,8% del Pil Ue nel 2025, per un totale di 829 miliardi di euro. Si prevede anche un incremento del numero di professionisti nel settore digitale, quasi il doppio, con 10,9 milioni di esperti nel 2025 rispetto ai 5,7 del 2018.
A questo punto, ignorare il ruolo della digitalizzazione come opportunità per il raggiungimento del paradigma sostenibile a lungo termine è impensabile.

Le Pmi non investono in formazione digitale   
La crisi sanitaria scaturita dal Covid-19, come detto, ha sicuramente dato uno slancio. Tant’è che durante i mesi di pandemia il digitale ha rappresentato l'unico strumento per le Pmi in grado di garantire una continuità di business, una condizione necessaria per rimanere competitivi e quindi per sopravvivere. Seppur le piccole e medie imprese abbiano accelerato alcuni aspetti della trasformazione digitale per efficientare le risorse, ridurre i costi e garantire flessibilità nel lavoro, sono però mancati un approccio strategico e una visione di lungo periodo. Lo si evince dalla capacità di sfruttare i mezzi di marketing e comunicazione digitali. Secondo il Report redatto dall’Istat l’80% delle aziende afferma di avere una propria piattaforma web, ma sono molto poche quelle che l’hanno ottimizzata e resa realmente performante. E anche se la pandemia ha fatto registrare una crescita del 50% nell’uso di piattaforme e-commerce, le Pmi si attestano comunque con un valore nettamente inferiore rispetto alla media europea (17,5%). Questo accade perché il trend predominante vede le Pmi rivolgersi a terzi. Manca, di conseguenza, lo sforzo di sviluppare piattaforme proprietarie per la cui creazione scarseggiano risorse economiche, competenze digitali interne e capacità di adattamento delle strutture e dei processi aziendali.
Dove risiede la ragione a monte di questa situazione? Se lo è chiesto Alessandro D'Arpa, Chief Product and Data Officer and Board Member di Credimi, un’azienda che svolge il ruolo di intermediario finanziario vigilata dalla Banca d’Italia: “Secondo il DESI (Digital Economy and Society Index), l’indice ideato dalla Commissione Europea per misurare i progressi compiuti dai Paesi UE in termini di transizione digitale, la digitalizzazione delle Pmi in Italia è a livelli inferiori alla media europea, anche se nel 2021 si è collocata al 20esimo posto fra i 27 Stati membri dell’UE, rispetto al 25esimo dell’edizione precedente. Uno dei nodi del paese sembra essere quello delle competenze: nel DESI 2020 l’Italia era ultima nella dimensione del capitale umano, e quest’anno è 25esima su 27 Stati. Solo il 15% delle imprese italiane eroga ai propri dipendenti formazione in materia di tecnologia informatica, cinque punti percentuali al di sotto della media UE”.  La scarsa formazione porta a scarse competenze, che a sua volta conduce a uno scarso utilizzo di soluzioni digitali in azienda. Digitalizzare i processi significa soprattutto semplificare, automatizzare, smaterializzare, adottare processi guidati dai dati, ottimizzare, risparmiare, guadagnare competitività, portando la digitalizzazione all’interno dei propri processi decisionali e organizzativi. Ma non si può fare senza persone formate e sempre più in confidenza con le nuove tecnologie.

I vantaggi della digitalizzazione
La rivoluzione digitale, dunque, comporta potenziali e numerosi benefici sia per le aziende che per i lavoratori. Basti pensare a soluzioni come lo smart-working e le videoconferenze che hanno permesso di ridurre al minimo i viaggi di lavoro e quindi le emissioni dei mezzi di trasporto. Attraverso l’automazione di una buona parte della propria routine, i lavoratori possono usufruire di maggiore tempo libero e migliorare significativamente il bilancio tra vita privata e lavoro. La crescente evoluzione delle tecnologie digitali rappresenta vantaggi in termini di competitività, produttività ed efficienza. Macchinari automatizzati minimizzano gli errori e contribuiscono alla riduzione degli sprechi.
Perciò le imprese, anche quelle più piccole, per divenire più competitive e crescere dovrebbero avvalersi di strumenti digitali, anche se talvolta non sembrano incidere sugli obiettivi di business. “I dati, infatti, dimostrano che non è così – sottolinea D’Arpa -. Le analisi dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle Pmi del Politecnico di Milano evidenziano come le realtà più mature dal punto di vista della digitalizzazione ottengano performance economico-finanziarie migliori: in media +28% di utile netto, +18% di profitti, +11% di EBITDA”. Assecondare dunque l’obiettivo 9 della Agenda 2030 significa costruire un’infrastruttura resiliente, promuovere l’industrializzazione inclusiva e sostenibile e sostenere l’innovazione. 

PMI: i prossimi passi da compiere verso la digitalizzazione 
Per allineare al resto del mondo le piccole e medie imprese italiane entro il 2030, si dovranno impiegare le risorse in modo efficiente e intelligente e si dovranno incentivare tecnologie e processi industriali puliti e rispettosi dell’ambiente che siano in grado di valorizzare il lavoro e i lavoratori.  “È questo il momento, per le Pmi, di cavalcare l’onda digitale e cambiare passo: infatti le opportunità offerte dal Pnrr saranno una guida importante per le aziende per tutto il 2022 – conclude D’Arpa -. Nei prossimi anni, infatti, grazie al Pnrr – che si affianca al Fondo Complementare – verranno messi a disposizione delle aziende italiane quasi 50 miliardi di euro da investire sull’infrastruttura digitale con l’obiettivo di aiutarle a intraprendere un percorso di evoluzione tecnologica e riuscire a essere più competitive sul mercato. Ecco perché anche in Italia le Pmi devono impegnarsi per cogliere questa sfida e portare la digitalizzazione in ogni settore dell’azienda: dalla presenza online, all’amministrazione e risorse umane, alla gestione degli aspetti legali, a quella dei flussi di cassa e del bilancio, ai finanziamenti, alla digitalizzazione delle linee di produzione”. 
Nello specifico le Pmi, per favorire questo processo digitale, dovranno puntare all’ottimizzazione dei processi interni e a favorire e rendere più efficiente la raccolta e la gestione dei dati e delle informazioni. La gestione dei dati diventa centrale, così come la reale tracciabilità dei processi, per ottenere un vantaggio competitivo forte. Proprio grazie ai dati e agli strumenti messi in campo per analizzarli è possibile trarre importanti informazioni che si traducono in concrete strategie.