Salvo Testa

La pandemia tuttora in atto a livello planetario costituisce un’emergenza sanitaria straordinaria, senza alcun precedente se non quello dell’influenza cosiddetta ‘spagnola’ di circa cento anni fa. La vera novità è che si tratta della prima grande pandemia dell’era moderna – sostanzialmente dal secondo dopoguerra – con un impatto e delle conseguenze dirompenti anche sui consumi, sulle attività economiche, sui posti di lavoro, sulla ricchezza e sulla crescita dei Paesi. In questo momento – essendoci ancora dentro e senza alcuna certezza su quando e come ne usciremo -, possiamo fare solo qualche riflessione su quanto avvenuto finora e su quali potrebbero essere le possibili conseguenze di medio e lungo periodo. E lo faremo prendendo in esame, in particolare, la filiera nazionale del sistema moda e il sistema delle piccole-medie aziende familiari, che rappresenta il 90% di tale realtà nel nostro Paese.

Per quanto riguarda l’impatto, ad oggi è del tutto evidente che i consumi dei prodotti moda siano stati colpiti in modo più significativo di altri, si pensi all’alimentare o ai beni strumentali: il lockdown ha bloccato e ridotto la vita fuori casa, la crisi dei negozi e della distribuzione tradizionale è stata accentuata dalle chiusure, dalle prescrizioni e dalla paura dei consumatori, la limitazione delle attività sociali ed economiche ha ridotto le necessità di aggiornare il proprio guardaroba. In termini globali si stima per il 2020 una riduzione dei consumi di moda e lusso tra il 30 e il 40% rispetto al 2019. In questa cornice va però rilevato che il canale on line, come in altri settori, ha conosciuto una crescita improvvisa, molto superiore ai trend già in atto negli ultimi anni. Al punto che molte aziende del settore sono riuscite a sostituire, in toto o in parte, le mancate vendite dei canali fisici proprio con le vendite sui canali on line. Qui possiamo fare una prima considerazione: la pandemia ha contribuito ad accelerare un processo di cambiamento già in atto e che in modo naturale avrebbe richiesto ancora qualche anno: la crisi della distribuzione fisica, la crescita della distribuzione on line e della gestione integrata dei processi di marketing, comunicazione, di vendita omnicanale. Le aziende – piccole, medie o grandi – che stavano già attuando o hanno saputo accelerare tale trasformazione del modello di vendita hanno potuto fronteggiare meglio questa situazione e in taluni casi sono riuscite a guadagnare posizioni sui propri concorrenti. La digitalizzazione ha avuto una forte accelerazione non solo sulle attività di vendita (e-commerce) ma anche sugli altri processi interni, a partire dalla gestione delle attività di lavoro quotidiane dei ‘blue collar’, cioè del personale impiegatizio e dei collaboratori esterni professionali. Il remote-working e lo smart working sono diventate per molte aziende, anche le più piccole, condizioni irrinunciabili per non interrompere le attività, per lo meno quelle non condizionate direttamente dal lockdown, come le attività produttive. Quindi, per quanto riguarda le piccole imprese familiari del settore, certamente la pandemia ha avuto delle conseguenze, ma quelle che stanno attuando velocemente la trasformazione digitale sono riuscite non solo ad attenuare i suoi effetti negativi ma anche ad affrontare con coraggio un cambiamento tecnologico, organizzativo e culturale ormai irreversibile per tutti gli attori della filiera della moda.

Venendo al medio-lungo periodo e allo scenario dei cambiamenti strutturali in atto nel settore, per valutare le conseguenze sulle piccole imprese familiari occorre distinguere nettamente tra due possibili profili di imprese: i brand e i retailer che offrono il loro prodotto al consumatore finale (B2C) e i produttori, fornitori che agiscono come partner di filiera (B2B). Nel primo gruppo, ad eccezione di specifiche ‘nicchie di mercato’, ci sarà sempre meno spazio per le piccole imprese, proprio per i crescenti investimenti e costi di struttura necessari a fronteggiare i complessi processi di marketing, comunicazione, commerciali sui mercati internazionali, utilizzando le competenze e le tecnologie digitali più avanzate. In tal caso la massima efficacia ed efficienza saranno rese possibili o almeno facilitate da una scala dimensionale maggiore. Nel secondo gruppo, invece, le piccole imprese italiane potranno giocare un ruolo ancora determinante, non essendo così significative come nel primo le ‘economie di scala’ rispetto alla specializzazione, la capacità innovativa, la velocità di risposta, la relazione personale: in sostanza, la flessibilità e la imprenditorialità che le ha sempre caratterizzate e che vede nel ruolo della ‘famiglia proprietaria’ un elemento di forza e di garanzia per il cliente. Ciò non significa che queste imprese possano evitare di affrontare le sfide della digitalizzazione e degli altri cambiamenti strutturali in atto anche nel settore moda – come la sostenibilità, l’economia circolare, la responsabilità sociale – che stanno trasformando in modo profondo anche le filiere produttive. Ma in questo caso, rispetto alle aziende del primo gruppo orientate al consumatore finale, le competenze storiche di conoscenza del prodotto, dei materiali, delle lavorazioni continueranno a rappresentare il vero fattore critico di successo, essendo tuttora la vera essenza del ‘Made in Italy’.