Due relatrici di primo piano ospiti del ciclo di seminari “Moda e sostenibilità” del Collegio Universitario Santa Caterina da Siena di Pavia, affrontano con passione due temi spinosi della sostenibilità in campo della moda. Marina Spadafora è ambasciatrice di moda etica nel mondo, sia attraverso la sua piattaforma FWAM (Fashion with a Mission) per lo sviluppo dei paesi emergenti e sia come coordinatrice nazionale di Fashion Revolution (movimento attivista per una moda responsabile) in Italia. Imprenditrice con il suo brand di maglieria sperimentale, ha alle spalle importanti collaborazioni con i brand Ferragamo, Prada, Miu Miu e Marni, ed è direttrice creativa di “Aucteurs du Monde”, linea di moda sostenibile e solidale di Altromercato che rispetta i diritti degli artigiani della moda e del tessile di ogni latitudine, per il cui impegno le è stato conferito il premio ONU “Woman Together Award”. Partendo dalla sua recente pubblicazione scritta in collaborazione con Luisa Ciuni: “La rivoluzione comincia dal tuo armadio” edito da Solferino, spiega come acquistare in modo responsabile.

Professore associato di Diritto Internazionale e Sovranazionale Pubblico e Privato presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università Statale di Milano, Angelica Bonfanti è anche a capo del Master Degree in Sviluppo Sostenibile e Diritti Umani. Nella sua relazione svela gli strumenti legislativi attuali e in sviluppo per tutelare chi opera nella filiera della moda.

Marina Spadafora
Marina Spadafora con una donna Vietnamita
Angelica Bonfanti
Angelica Bonfanti


La rivoluzione comincia dal tuo armadio


There is no beauty in the finest cloth if it makes hunger and unhappiness” (non c'è bellezza dell'abito più fine, se crea fame e infelicità): la relazione di Marina Spadafora parte dalla celebre citazione del Mahatma Gandhi per affermare la necessità di un approccio alla moda che massimizzi i benefici sulle comunità riducendo al minimo l'impatto sull'ambiente. “E' una questione di equilibrio tra aspetto sociale, ambientale ed economico – spiega – persone, pianeta e profitto devono stare sullo stesso livello”. La povertà e lo sfruttamento della forza lavoro della filiera moda influiscono sulla stabilità dell'industria stessa e sociale dei paesi produttori, dove si moltiplicano le proteste per ottenere un living wedge (uno stipendio che permetta un dignitoso stile di vita, che offra la possibilità non solo di cibarsi, ma anche di dare una educazione ai figli, di accedere a servizi sanitari e realizzare un guadagno): “Una t-shirt è per il 60% cotone, il 20% sudore e 20% sangue”, ammonisce Marina Spadafora.

Il rispetto dell'ambiente si compie non con azioni una tantum, ma applicando un solido modello di business improntato alla sostenibilità che guarda a tutta la filiera, dai coltivatori che devono essere aiutati a produrre fibre con minore spreco di acqua e senza fertilizzanti chimici nocivi, “quello che sta facendo la Better Cotton Initiative, ad esempio”, e nel rispetto degli animali, alla produzione che deve promuovere processi efficienti improntati al risparmio energetico, ad evitare sprechi, ad utilizzare materie prime naturali, biodegradabili e/o riciclate. Ma non basta: “anche il consumatore deve fare la sua parte, incominciando da un consumo responsabile, per evitare di ingrossare ulteriormente le discariche tessili nel mondo, una piaga vergognosa” dichiara Marina Spadafora, svelando le sue idee per costruire un armadio sostenibile:

– Comprare localmente per ridurre l'impatto di CO2Comprare vintage (che va anche di moda)

– Comprare equo e solidale, controllando bene l'etichetta del prodotto e appoggiandosi sulla mappa di moda sostenibile di Fashion Revolution

– Acquistare capi realizzati con materiali riciclati

– Acquistare capi con tessuti tinti in modo naturale, senza metalli pesanti

– Acquistare su misura: scegliere tessuti invenduti e portarli da un sarto

– Premiare con la propria scelta i brand che adottano una concreta CSR- Corporate Social Responsability

– Promuovere Swap Party (feste per scambiarsi gli abiti) con amici/colleghi

– Utilizzare il riammendo creativo per dare nuova vita agli abiti

Marina Spadafora chiude il suo intervento citando, come ammonimento, la stilista Vivienne Westwood “Buy less, choose well, make it last” (compra meno, scegli meglio e fallo durare): la moda sostenibile dipende anche da te”.

Campagna “I made your clothes” di Fashion Revolution
Swap party tra amiche



Moda e diritti umani

“La differenza tra il prezzo etico e quello dell'etichetta lo paga chi lavora nella filiera. E la filiera della moda è molto lunga: i marchi occidentali delocalizzano in Paesi dove i diritti dei lavoratori sono bassi, sia a livello di tutela che di stipendi. Le loro produzioni spesso sono dannose per l'ambiente e i loro effetti nocivi si riverberano sulle comunità locali. Queste pratiche, che prima passavano in sordina, sono prepotentemente salite alla ribalta dopo il crollo del Rana Plaza in cui nel 2013 hanno trovato la morte 1134 lavoratori, soprattutto donne, del settore tessile-moda e altri 3000 sono rimasti feriti: uno shock che ha mosso l'opinione pubblica mondiale”. Comincia così la relazione di Angelica Bonfanti mettendo in risalto l'aspetto critico della questione: di chi deve essere la responsabilità?

Le diverse legislazioni nazionali, la responsabilità limitata in virtù dei contratti siglati con le aziende produttrici, rendono difficile alle vittime di far valere i propri diritti ed ottenere eventuali risarcimenti dalle multinazionali committenti. Così anche tragedie come il Rana Plaza in Bangladesh e un altro caso emblematico come la Ali Enterprise in Pakistan (nel cui incendio del 2012 sono morti 260 lavoratori) sono riuscite ad ottenere una parziale giustizia: nel primo caso, solo la forza dell'opinione pubblica ha costretto i brand committenti a costituire un fondo di 30 milioni di dollari per le vittime, mentre nel secondo caso, la class action contro la tedesca Kik, principale acquirente della fabbrica pakistana, non è riuscita a far assumere all'azienda le proprie responsabilità e si è risolta con un indennizzo in termini “cortesi” di oltre 5 milioni di dollari. 

Se già in condizioni di normalità è difficile far valere i diritti umani, con la pandemia la situazione si è aggravata registrando un numero esponenziale di violazioni. “La pandemia del Covid ha inciso gravemente sulla filiera moda, – denuncia Angelica Bonfanti – la chiusura delle forniture ai paesi asiatici, gli annullamenti di ordini addotti con la causa di forza maggiore da parte delle multinazionali della moda, hanno causato perdite enormi alle fabbriche della filiera, situazione che si è riverberata sui lavoratori con la decimazione dei salari (con picchi del -50% in Bangladesh, Cambogia e India) o la perdita del lavoro, ma anche sulla tenuta sociale stessa dei paesi produttori”.

Cosa fare per ristabilire condizioni di equità? “Il punto è che non esiste uno strumento di diritto internazionale che fissi uno standard sui diritti umani – spiega Angelica Bonfanti – ci sono i Diritti Universali dell'Uomo e i Diritti Fondamentali dei Lavoratori che avversano il lavoro forzato e il lavoro minorile, ci sono i Diritti di Associazione sanciti da innumerevoli convenzioni da parte di tutti i Paesi… Ma il divario tra quanto è sancito e quanto è rispettato è ancora molto largo. Per l'industria della moda ci sono anche protocolli volontari, ma non strumenti obbligatori”.

La via d'uscita l'ha indicata il Concilio delle Nazioni Unite sui Diritti Umani del 2011 che ha incoraggiato i paesi ad adottare i principi guida dell'Human Rights Due Diligence, strumento legislativo che opera una vera e propria rivoluzione copernicana, rendendo responsabili le imprese che operano nel contesto globale del rispetto dei diritti umani lungo tutta la filiera, identificando, prevenendo, mitigando l'impatto e i rischi connessi alle loro attività multinazionali.

“Attualmente in Unione Europea si sta discutendo di adottare un Regolamento di Human Due Rights Diligence che dovrebbe imporre la responsabilità etica e ambientale delle aziende capogruppo su tutta la filiera globale. – spiega Angelica Bonfanti – Spero che questa direttiva, se sarà adottata, non si esaurisca solo ad un obbligo di trasparenza per le imprese, ma che includa anche una responsabilità in caso di infrazioni, danni, eccetera. In caso positivo, le vittime, indipendentemente dal proprio paese di origine, potranno far valere i propri diritti rivolgendosi ad un tribunale europeo. Si tratta di un passo enorme, che non so se passerà…”.

Dal punto di vista morale, è indubbia la responsabilità delle multinazionali della moda sulla propria filiera internazionale, bisogna ora renderla vincolante con uno strumento di legge che, anche grazie ad una opinione pubblica sempre più consapevole, ci si auspica diventi presto concreto.

Il crollo del Rana Plaza
I famigliari delle vittime del Rana Plaza
La campagna per il risarcimento alle vittime della Ali Enterprise
I principi per una Right Due Diligence