Perché parliamo di Zia Letizia, così la chiamano i suoi nipoti mentre la vedono ancora camminare fra i corridoi del Calzaturificio Brunate?
Perché ha compiuto 100 anni e dal 1939 dedica la sua vita alle calzature e all’azienda di famiglia.
Mai come in questo momento difficile ci è d’aiuto rendere omaggio, con grandissima gioia, a una persona che ha attraversato così tante primavere, conoscendo gioie e traversie.
Mai come in questo momento ci è di conforto pensare alla resilienza che importanti aziende italiane hanno e stanno dimostrando proprio grazie alla cura, alla passione e ai sacrifici delle persone che le hanno guidate e che hanno condiviso fatica e soddisfazioni con la propria famiglia e i propri collaboratori.
Mai come in questo momento le parole della signora Letizia possono aiutarci a guardare avanti, con speranza, fiducia e… quel pizzico di saggezza che certo non guasta.
Aveva solo 19 anni quando ha preso le redini del Calzaturificio Brunate. Cosa era successo e come si è sentita?
“Era il 1939, era appena morto mio padre e all’orizzonte si profilava un’altra tragica guerra. Onestamente, non ho avuto molto tempo per chiedermi come mi sentissi. Nostro padre morì dopo una malattia molto breve. Ero la più grande di sei fratelli, e il più giovane aveva solo tre anni. Avevo appena finito la scuola. Ricordo molto bene che il giorno in cui morì, papà mi chiese di occuparmi della fabbrica e io gli promisi che lo avrei fatto. Sapevo che sarebbe stata una grande responsabilità. Già allora la fabbrica contava più di 100 dipendenti. Ma lo dovevo a mio padre e ai sacrifici che aveva fatto per avviare l'azienda. Poi, nel giro di pochi anni, sarebbe arrivata anche la seconda guerra mondiale. Quando ripenso a quei tempi, mi rendo conto che ciò che viviamo oggi non è nulla in confronto. Molti dei nostri dipendenti dovettero andare al fronte. La vicina città di Milano fu bombardata più volte. Furono anni molto complicati, durante i quali la nostra attività dovette rallentare notevolmente. Uno dei miei fratelli, Elia, fu addirittura mandato in un campo di addestramento in Germania e poi, una volta tornato in Italia, trascorse alcuni mesi in un campo di concentramento in Toscana.”
Come ha fatto a guadagnarsi il rispetto di una società maschilista, come quella del tempo?
“Immagino di essermelo guadagnato perché, probabilmente, mi sono comportata come un uomo!
Scherzi a parte, ho ricevuto anche qualche aiuto. Mi diede una mano mio zio Giovanni, con cui mio padre Vittorio aveva fondato la società, anche se pure lui morì qualche anno dopo la guerra. Mi sostennero i tanti uomini di fiducia all'interno della nostra organizzazione. E i miei fratelli, cresciuti in fretta. Avevamo anche rappresentanti di vendita e clienti rivenditori molto competenti che hanno apprezzato i nostri prodotti e la collaborazione con la nostra famiglia.
Naturalmente, di tanto in tanto, ho avuto anche dei duri scontri. Ricordo un incidente in particolare. Una notte del marzo 1949 la fabbrica bruciò quasi completamente. Una vera catastrofe! Mi rivolsi alla banca dell'azienda per un aiuto finanziario. Con mia grande sorpresa, il finanziamento fu rifiutato. Dopo qualche giorno scoprii che uno dei dirigenti della banca era anche socio di un calzaturificio concorrente. Non mi persi d'animo e, il giorno stesso in cui chiusi tutti i rapporti con quella banca, mi rivolsi a un altro istituto che mi accordò il prestito. I nostri fantastici collaboratori rinunciarono per diversi mesi a parte del loro stipendio per sostenere la ricostruzione. Naturalmente li ripagai con gli interessi. Riuscii anche a ottenere dai nostri fornitori delle dilazioni di pagamento eccezionali. Conservo ancora tutte le lettere di solidarietà che ricevemmo in quel periodo.”
Cosa l’ha spinta a lavorare per 80 anni?
“Da un lato, la promessa che feci a mio padre. Dall’altro, vedere i miei nipoti impegnarsi nell'azienda fondata dal loro nonno. Ecco perché vado ancora in azienda, ogni giorno.”
Qualcuno sostiene che lei non sia mai neppure andata in ferie. È possibile?
“Credo di aver iniziato a fare delle vere e proprie vacanze solo a partire dagli anni '70, quando due dei miei fratelli sono entrati definitivamente in azienda. Da allora ho trascorso alcune settimane d’estate in Alto Adige. La montagna è sempre stata una mia passione. Fino a quel momento mi concedevo solo pochi fine settimana all'anno nella vicina Svizzera o nelle città d'arte italiane. Firenze, Venezia, Roma sono sempre state tra le mie mete preferite.”
Come è stato dover guidare un’azienda, prendere decisioni importanti, studiare nuove strategie? Si è pentita di qualche mossa?
“Difficile, soprattutto nei primi 20 anni in cui ho gestito l'azienda praticamente da sola. Più tardi ho avuto la fortuna di avere i miei fratelli al fianco e le decisioni più difficili sono state condivise. Forse il nostro più grande rimpianto è stato smettere di produrre scarpe per bambini all'inizio degli anni Ottanta. Sono convinta che, oggi, ci sarebbe ancora spazio sul mercato per un prodotto di qualità come il nostro.”
Quali qualità ritiene siano più importanti per fare bene nella professione?
“Talento e duro lavoro sono due qualità che non dovrebbero mancare, anche se a monte di entrambe credo ci debba essere passione per quello che si fa e capacità di trasmetterla a chi lavora con noi. In questi anni mi ha sempre fatto piacere constatare come in azienda ci siano persone che hanno iniziato a lavorare con noi da giovani per poi trascorrere in Brunate l’intera carriera. Quaranta, a volte quarantacinque anni. Esempi di padri o madri che portano i loro figli, e addirittura i nipoti, a lavorare con noi. Significa che il nostro esempio e la nostra dedizione hanno aiutato a creare un ambiente stimolante e gratificante.”
Ricorda qualche aneddoto legato alle vostre apprezzatissime calzature?
“Non so se posso dirlo, ma abbiamo avuto il grande piacere di vedere la Cancelliera Merkel indossare un paio di mocassini Brunate in camoscio blu durante il suo primo incontro con il Presidente Trump alla Casa Bianca, qualche anno fa. Così come siamo stati felici di ricevere in fabbrica, un sabato mattina di due anni fa, la visita privata della Regina Paola del Belgio. In quella occasione le mie nipoti l’hanno aiutata a selezionare delle décolleté e dei mocassini. Sappiamo che anche altre regine, principesse e celebrità amano e indossano le nostre scarpe: un bel motivo di orgoglio.
Nel mondo della moda quali personalità hanno attirato la sua attenzione?
“Vorrei citare Giorgio Armani per lo stile e l'eleganza dell'uomo e delle sue collezioni. Penso anche a Gabrielle Chanel per la sua storia personale e le creazioni iconiche. Per quanto riguarda il mondo della calzatura, credo che Salvatore Ferragamo sia stato tra i primi a sviluppare e portare sui mercati internazionali prodotti alla moda con un perfetto contenuto tecnico.”
I passaggi generazionali rappresentano sempre un momento cruciale per le aziende. Il vostro segreto?
“Il confronto costante delle idee. La suddivisione dei compiti. La convinzione che rimanere uniti significa rimanere forti. Sono sicura che senza la forza della famiglia non avremmo superato tutte le crisi e tutte le sfide in questi quasi cento anni di attività.”
Oggi i suoi nipoti guidano l’azienda. Si rivede in loro o nota molte differenze nel modo di gestire gli affari?
“Oggi le nuove generazioni lasciano meno spazio all'improvvisazione. Stiamo parlando di giovani che hanno studiato e parlano diverse lingue. E magari hanno anche fatto esperienze all'estero. Si muovono con facilità in questo mondo globalizzato. La generazione dei miei fratelli e la mia era composta da giovani con molto intuito e forza di volontà. Dopo la guerra, l'Italia era un Paese da ricostruire completamente. C'era bisogno di tutto. Le sembrerà paradossale ma, anche se i tempi erano più difficili, il modo di fare impresa era più semplice.”
Di certo lei avrà attraversato molti momenti duri e difficili. Cosa direbbe a chi oggi deve fronteggiare la pandemia?
“Creatività e buon gusto sono qualità che vanno oltre le crisi. Nel corso dei secoli, arte e moda hanno sempre avuto un'influenza positiva sulle nostre vite. Anche durante le guerre, anche durante le pandemie. Non dobbiamo perdere la speranza. Il mondo non si fermerà certo a causa di un virus.”
Quale pensa sia il lascito importante che vorrebbe rimanesse nel tempo sia ai suoi nipoti che nella sua azienda?
“Da quando i nostri nipoti e i nostri figli erano più piccoli, abbiamo sempre cercato di insegnare loro la cultura del lavoro. In un certo senso, hanno dovuto imparare a diventare i custodi della tradizione. E in futuro dovranno essere in grado di trasmetterlo ai loro figli. Questo è il segreto di Brunate, per così dire: saper trasformare buone idee in scarpe con una forma, una linea, una calzata eccezionali, utilizzando la maestria dei nostri collaboratori. Mi piace pensare che la famiglia e l'azienda quasi si confondano.”
Quando ha spento le 100 candeline ha pensato ‘ho realizzato i miei sogni’ o c’è ancora spazio per qualche desiderio?
“Come ho detto, non ho avuto molto tempo per immaginare una vita diversa da quella che ho avuto. In ogni caso, non me ne rammarico. Quello che ho fatto, l'ho fatto con grande gioia. È stato un ‘viaggio’ fantastico, in cui momenti meravigliosi si sono alternati a momenti più difficili. Se ho ancora un sogno? Forse sarebbe chiedere un po' troppo, ma tra poco più di cinque anni la fabbrica festeggerà i suoi primi cento anni…”