Il settore della moda sta per subire una vera rivoluzione. Il suo futuro è legato al Fashion Sustainability and Social Accountability Act, meglio conosciuto come Fashion Act. Questo documento si trova al vaglio della commissione legislativa dello Stato di New York e, se verrà approvato e convertito in legge, scatenerà i suoi effetti in tutto il mondo, anche in Italia.

Si tratta di un disegno di legge per richiedere alle aziende che si occupano di moda di tracciare e comunicare ufficialmente il loro impatto ambientale, prendendo in considerazione tutta la filiera. Si tratta di una misura che calcola l’impatto ambientale e sociale delle filiere produttive per renderle trasparenti. Nonostante le criticità, questa transizione consentirà di fare concreti passi avanti in termini di sostenibilità.

Francesca Rulli – CEO di Process Factory e ideatrice di 4sustainability

Ne parla Francesca Rulli, esperta in sostenibilità, CEO della società di servizi Process Factory e ideatrice di 4sustainability, sistema e marchio che misura e attesta la sostenibilità delle filiere del fashion & luxury.

Che cosa comporta l’entrata in vigore del Fashion Act?
“Il Fashion Act imporrà alle aziende del settore moda di mappare almeno il 50% della loro catena di approvvigionamento, identificando gli impatti in termini di emissioni di gas serra, consumo idrico e uso di sostanze chimiche. Inoltre, sarà impegno delle imprese stesse fissare dei precisi target di riduzione dei consumi energetici e delle emissioni, comunicare la quantità e la tipologia delle materie prime che ricevono dai fornitori e la percentuale di materiali riciclati.
Dal punto di vista etico e sociale, invece, dovranno essere rese note le condizioni di lavoro e le retribuzioni percepite dai lavoratori, assicurando che siano adeguate almeno al salario di sussistenza. Se questi requisiti, sostenibili ed etici, non vengono rispettati la multa potrà ammontare anche al 2% dei ricavi annui.
Questa normativa, anche se emanata dallo Stato di New York, si applicherà a tutte le aziende di moda che hanno un fatturato globale superiore ai 100 milioni di dollari, che hanno una sede entro i confini di New York o che fanno affari lì. In poche parole, a tutti i brand di moda, dal lusso al fast fashion”.

Qual è la reazione degli operatori del settore?
“Sia i noti brand internazionali, che dal prossimo anno potrebbero dover mappare tutta una serie di dati che ancora non conoscono, sia le imprese della filiera che lavorano con loro e dovranno soddisfare quelle richieste, si stanno già attivando per capire come muoversi.
Inoltre, questa legge andrà ad incrociarsi con la direttiva europea sulla due diligence, cioè sul dovere di vigilanza da parte delle aziende sulle questioni ambientali, sociali e di governance. La novità portata dal Fashion Act consiste nel far ricadere sulle aziende la responsabilità non solo di quello che fanno in prima persona, ma anche di tutto quello che succede lungo la loro catena di valore.

Tracciare l’impatto ambientale e sociale significa mettere in evidenza il modo in cui viene realizzato il profitto e qual è il comportamento sul mercato degli operatori del settore”.

Quali saranno le conseguenze concrete?

“L’Italia è un paese avanzato dal punto di vista delle normative in fatto di sostenibilità, siamo molto attenti all’argomento, ma è necessario continuare ad agire sulla formazione e su un cambio di mentalità. L’attenzione alla sostenibilità sta crescendo in modo esponenziale, già molti brand hanno chiesto ai propri fornitori delle garanzie in materia di impatto ambientale, uso di sostanze chimiche, condizioni di lavoro dignitose e così via.

Il limite, nella maggior parte dei casi, è che il brand entra in relazione solo con i suoi fornitori diretti, mentre ciò che verrà chiesto sarà la tracciabilità dell’intera filiera, cioè di avere conoscenza e poter garantire anche per quei subfornitori che si trovano a monte della catena di produzione.

Il brand dovrà mappare tutti gli anelli della catena, valutando il suo impatto e collegandolo all’impatto dei singoli prodotti emessi sul mercato. I fornitori, da parte loro, dovranno essere in grado di comunicare ai brand i dati richiesti.

Questo coinvolge l’Italia direttamente, essendo un paese manifatturiero. In molti distretti, come Prato, Biella e Como, sono già state avviate delle azioni volte a misurare l’uso della chimica, le emissioni di CO2, il consumo dell’acqua e altri indicatori, ma c’è ancora tanta strada da fare”.

Esistono già degli strumenti per tenere traccia di tutti i dati richiesti?

“Esistono degli strumenti per tenere traccia di questi dati, così come ci sono diverse certificazioni con cui le imprese possono testimoniare il proprio impegno in termini di sostenibilità. Adesso, però, c’è un passo in più da fare, cioè mettere a sistema tutti questi elementi, condividerli e comunicarli in maniera trasparente.

A questo scopo, 4sustainability ha sviluppato una piattaforma digitale ad hoc per le aziende che vi aderiscono. Si tratta di uno strumento che mira al coinvolgimento di tutta la filiera: i fornitori dovranno effettuare una misurazione quali-quantitativa di dati ambientali e sociali, inoltre dovranno aggiornare gli indicatori delle performance. Queste informazioni potranno essere consultate dal brand o da altri anelli della catena più a valle e, in questo modo, avverrà una condivisione trasparente”.