Da cosa partire per parlare di innovazione oggi?
“Il tema da cui parto spesso, in questo periodo, è quello della ‘Doppia accelerazione’, un concetto che dà anche il titolo a un libro da poco pubblicato. Dobbiamo riconsiderare qualsiasi mercato alla luce di due importanti novità: un nuovo sistema tecnologico che proprio in questi anni sta giungendo a maturazione, e l’accelerazione dell’adozione del digitale da parte di tutti i consumatori.
Quanto accade e accadrà nel mercato va letto e analizzato a partire da questi due concetti chiave”.

Una doppia accelerazione capace di mutare distribuzione e produzione?
“Certamente. I negozianti si sono trasformati in broadcaster a causa della pandemia, che ha abbassato la saracinesca sulle loro vetrine. L’utilizzo degli strumenti digitali è così diventato fondamentale, impattando in realtà su tutta la catena del valore. La situazione configuratasi a causa del Covid ha creato le condizioni per la nascita di una infrastruttura complessa, di start-up e strumenti a sostegno delle mutate esigenze di produttori e commercianti. Penso a Bambuser come un possibile esempio. Il dato interessante è che queste nuove realtà, una volta nate, non si limitano a svolgere il compitino, ma scalpitano affinché l’adozione di innovazione digitale si spinga sempre più in là. C’è chi è arrivato, lato B2B, a costruire in azienda dei veri e propri studi televisivi per poter presentare al meglio la propria offerta ai clienti. Lato consumer si sono affiancati sistemi CRM alle videochiamate, divenute essenziali per mantenere un contatto con i clienti. Sistemi che consentono a chi vende di conoscere meglio e in tempo reale i propri interlocutori (cosa hanno guardato online, lo storico degli acquisti, i prodotti che hanno nel carrello ma non ancora acquistato…).
Tutti elementi che esistevano anche prima della pandemia, ma rappresentavano la nicchia della nicchia, e che invece oggi godono di successo e diffusione.
Questi strumenti, come appare chiaro, possono modificare profondamente e radicalmente il tradizionale approccio alla vendita, in particolare estromettendo dal sistema i livelli di micro-intermediazione che non offrono alcun servizio a valore aggiunto.
Sarà fondamentale, nei prossimi anni, studiare e conoscere bene tutti gli strumenti di accesso al mercato che già esistono e che via via nasceranno”.

Come potrebbe cambiare il retail fisico?
“I mutamenti in atto potrebbero trasformarne la sostanza. Se, grazie alle nuove tecnologie, un negoziante potrà vendere non solo a chi si imbatte nella sua vetrina, ma anche a chi si trova a chilometri di distanza, domani potrebbe non aver più bisogno di quella vetrina fisica, modificando, quindi, molte strategie di real estate oggi in essere. Chissà, magari gli store si trasformeranno in micro magazzini di prossimità, pronti a servire in velocità l’ultimo miglio”.

Quanto detto fino ad ora che cosa comporta per un’azienda produttiva?
“Che ogni società dovrà mappare tutte le relazioni che intrattiene con il mercato (dalla catena di fornitura, passando per colleghi e consulenti, fino a giungere alla distribuzione e ai vari intermediari verso il consumatore) e decidere quali di queste relazioni hanno ancora valore e in quale spazio (fisico o digitale) hanno senso di esistere.
Il vero mestiere dei prossimi 3 anni sarà focalizzarsi su questa domanda e ripensare la propria struttura di relazioni”.

Quale l’elemento centrale, l’occhio del ciclone di questi mutamenti?
“Il dato di vendita. Un movimento interessante che sta coinvolgendo il retail e le sue relazioni con i marchi e la produzione riguarda la gestione di questi dati. Sappiamo bene, in epoca di big data, quanto sia cruciale la posizione di chi detiene le informazioni.
Fino ad oggi chi vende ha sempre tenuto ben protette le sue informazioni rendendosi essenziale agli occhi dei brand. Oggi, che la loro posizione vacilla e il contesto è mutato, le cose potrebbero cambiare.
Mi immagino tre scenari. I retailer si accorgono di quanto sia cruciale per i produttori il dato di vendita e si strutturano, grazie a nuove piattaforme digitali, per monetizzare la loro posizione di vantaggio. Molto difficile che si verifichi, per le competenze tecniche e i mutamenti di visione che ciò comporterebbe.
La seconda possibilità, che ritengo più probabile, si incarna in una collaborazione forzata: il retail fornisce informazioni in cambio di contratti e collaborazioni blindate.
Da ultimo immagino una mutua collaborazione che permetta agli uni di mantenere il proprio ruolo distributivo e agli altri di lavorare al meglio. Una prospettiva che presuppone un salto culturale che, ad oggi, ritengo impossibile si verifichi”.

Si conferma, quindi, la centralità dei Big Data nell’evoluzione dell’industria…
“Pensiamo all’Effetto Forrester. In questo momento assistiamo a un problema di reperibilità delle materie prime. L’attuale ripartenza dell’economia ha portato la domanda a crescere di colpo, perché il consumatore finale torna a comprare e lo fa con una certa voglia di rivalsa. Assistendo a questo fenomeno, il distributore, che nel frattempo ha svuotato i magazzini avendo drasticamente ridotto gli acquisti durante il lockdown, compra molto più del necessario per ‘mettersi comodo’. Appena dietro la distribuzione c’è l’industria, la produzione. Anche lei percorre la risalita, ma lo fa vedendo solo gli ordini che la distribuzione le mostra. Con quei dati, già gonfiati, sviluppa le sue previsioni ed effettua i relativi ordini. Ovviamente non compra lo stretto indispensabile, ma ben di più per coprirsi le spalle e non rischiare di perdere il treno della ripresa. Questa catena si trasforma, praticamente, in una bolla scollegata dalla realtà, conosciuta solo dal distributore, e che conduce alla carenza di materie prime e all’aumento dei costi.
Questo Effetto Forrester potrebbe essere evitato se, ancora una volta, venissero gestiti e condivisi in modo diverso i dati e le informazioni, senza lasciare che si fermino al primo anello della catena, generando anomalie”.

Quali altri temi deve tener presente la catena di fornitura?
“Oggi il tema della sostenibilità è molto concentrato su quelli che si chiamano comunemente Scop1 e Scop2: le risorse che vengono impiegate nella produzione e la composizione del portafoglio energetico che si utilizza. Ma domani, per la verità in alcuni mercati già oggi, diverranno cruciali gli Scop3 e 4: l’impatto dei miei acquisti di macchinari o delle forniture di materie prime, e l’impatto che i miei prodotti avranno una volta immessi sul mercato (durante il loro utilizzo e al fine vita).
Questo cosa comporta per la catena del valore? Che in un domani molto vicino non basterà più dimostrare di essere sostenibili nella sola fase finale della vita di un prodotto, compensando le emissioni con qualche sporadica iniziativa, ma verrà richiesto di valutare l’impatto ambientale e sociale prodotto dall’intero ciclo di vita del prodotto.
Chi non sarà pronto o non sarà in grado di misurare il proprio impatto rischia di rimanere fuori dalla catena di fornitura o di distribuzione dei grandi produttori. Il tema sostenibilità non diverrà fondamentale solo lato marketing, ma un vero e proprio tema di opportunità di business”.

Quali altri effetti dello scenario tecnologico della doppia accelerazione vanno considerati?
“Sarà sempre più economico fare previsioni. 5G, intelligenza artificiale, potenza computazionale in cloud e robotica sono ingredienti che daranno vita a una vera e propria economia previsionale.
Produrre previsioni sempre più precise aiuterà l’ottimizzazione. Un concetto che influenzerà anche recenti categorie di pensiero, come l’omnicanalità. Sul tema già Giuseppe Stigliano si è pronunciato nel suo libro “Retail 4.0”: non sarà importante essere presenti ovunque per farsi trovare dal consumatore, ma analizzare e capire i canali preferiti dal consumatore, potenziare e ottimizzare quelli, senza necessariamente presidiare ogni possibile sbocco. Anche perché gestire tutti i canali attuali, più quelli che verranno, è pressoché impossibile”.

Cos’altro?
“Intelligenza Artificiale e Creatività. Questa relazione crea spesso resistenza nel mondo dei designer, che non vedono di buon occhio l’idea di essere condizionati da un algoritmo. Vorrebbero puro il momento del concepimento di una nuova idea. In modo anche provocatorio, vorrei sollecitare l’ambiente a valutare i vantaggi che una IA può fornire al gesto creativo. Come accade già in altri settori. Nel food esistono algoritmi che suggeriscono a chef e bar tender degli accostamenti di gusto a partire dalla valutazione dei riferimenti culturali dei clienti che frequentano il locale. Un’analisi che nulla toglie alla creatività degli chef, comunque chiamati a realizzare il proprio piatto, ma che aiuta a limitare le possibilità di errore.
Esistono già start-up, anche nella moda, in grado di elaborare e fornire buone basi di partenza, attraverso per esempio la sentiment analysis, su cui i creativi possono imbastire il proprio lavorare”.

Le piace torturare i designer e vederli soffrire, quindi?
“No, mi piace provocare quando trovo resistenze al cambiamento, perché ritengo la disponibilità al cambiamento un’attitudine fondamentale per arricchire le nostre esperienze. Mi affascina il concetto di Supermente. Dobbiamo sempre più allenarci a immaginare una dinamica in cui mente umana e mente artificiale lavorano insieme, pur mantenendo ruoli separati. La macchina è imbattibile nell’andare in verticale su definiti e circoscritti aspetti dell’esperienza, mentre la creatività, cioè la capacità di collegare ispirazioni provenienti da realtà distanti e differenti, è tipicamente umana”.

Quale attitudine ritiene che le aziende dovrebbero allenarsi a sviluppare nel prossimo futuro?
“Il vedersi parte di ecosistemi più grandi. Propongo un esempio accademico: oggi un grande brand che vende scarpe da corsa dovrebbe iniziare a immaginare che l’ecosistema del running sia molto più vasto della singola scarpa e di qualche capo di abbigliamento. Il consumatore che pratica running, oltre che di strumenti tecnici, ha bisogno di una consulenza per i propri allenamenti, di un nutrizionista, di un medico che lo affianchi per recuperare dagli infortuni, di chi sia in grado di organizzargli al meglio il viaggio per partecipare alla prossima maratona…
In buona sostanza: chi acquista una scarpa da running non ha come obbiettivo la scarpa in sé, ma un’esperienza più ampia e complessa che oggi il runner deve comporsi cercando sul mercato i vari pezzi del puzzle che gli servono.
Sempre più si costruiranno mercati ibridi, costituiti da aziende fra loro diverse, ma che, insieme, avranno una proposizione di valore disgiunta dal loro singolo prodotto e che soddisferà il più ampio bisogno del consumatore. Il nuovo modello di business non si fonderà sul vendere una scarpa, ma sull’offrire un ecosistema che accompagni il consumatore nel percorso che lo porterà a correre la maratona, e quindi a soddisfare il suo reale desiderio. Il punto non sarà vendergli un paio di scarpe, ma l’abbonamento a un servizio che comprenderà abbigliamento tecnico e molti lei altri servizi. Ovviamente, l’esempio non è solo accademico: marchi come Nike già si spingono in quella direzione.
Da notare: anche in questo scenario il punto focale sarà rappresentato da chi detiene il dato riferito ai comportamenti del consumatore. Un dato che, una volta condiviso con l’ecosistema, risulterà cruciale per fornire un servizio sempre più apprezzato”.


CHI È Alberto Mattiello
Business futurist, autore, imprenditore e keynote speaker. Vive a Miami Beach, in Florida.
Esperto di tecnologia e innovazione aziendale, è mentore presso aziende e università, tra cui l'Imperial College Of London e l'Università Bocconi di Milano. Speaker internazionale con oltre 250 eventi in oltre 15 paesi alle spalle.