Matt Priest, CEO di FDRA

Qual è la situazione del mercato statunitense delle calzature dal punto di vista delle vendite?
Siamo un comparto produttivo che ha dovuto affrontare molte e diverse sfide lanciate sia dagli uomini che dalla natura, sfide che stanno cambiando profondamente le dinamiche del nostro settore. Doversi destreggiare, da 2 o 3 anni ormai, fra le schermaglie della guerra commerciale con la Cina, e dover fronteggiare, ora, una pandemia che chiude tutti i tuoi negozi, e poi i dissidi sociali di questi giorni che hanno impedito alcune riaperture… È come incassare un colpo dopo l'altro senza poterli evitare.
Quando circa 10 settimane fa [l'intervista è dei primi giorni di giugno] ho letto che gli ultimi dati di vendita registravano un -99% di vendite, rispetto alla stessa settimana dell'anno precedente, ho pensato non sarebbe mai stato possibile confrontarmi con certe cifre. Stiamo affrontando una situazione senza precedenti.
Dopo quel report, devo dire, la situazione non è più così tragica: le vendite della scorsa settimana hanno segnato un -37% rispetto allo scorso anno. Quindi la situazione procede nella giusta direzione. I negozi che riaprono evidenziano un dato interessante: meno traffico, ma un miglior tasso di conversione e una più alta media di vendite per cliente. È come se gli acquirenti avessero un obbiettivo ben preciso: andare in negozio per acquistare le scarpe che servono, e magari anche un paio in più, non sapendo se e quando la situazione potrebbe nuovamente bloccarsi.

Credi a un cambiamento duraturo delle abitudini di consumo?
Non penso. Quando la situazione tornerà alla normalità, le abitudini di acquisto torneranno quelle pre-crisi. Ma è ancora molto difficile immaginare come possa evolvere la situazione. In una parte del Paese potrebbero già migliorare, mentre in altre in cui il virus è in crescita, è ancora molto incerta. Per quanto riguarda il nostro settore, trovo sempre più ottimismo nelle aziende nostre associate che ritengono il peggio sia alle spalle. Nelle ultime due settimane, hanno visto crescere le vendite da quando i negozi hanno potuto riaprire. Altro dato positivo riguarda gli aiuti e i sussidi con cui il governo statunitense sta sostenendo chi ha perso il lavoro. Ma le incognite sull'economia permangono: ci si chiede se i segnali di ripresa permarranno una volta sospesi i sussidi.

Più nel dettaglio, che impatto c'è stato sulle collezioni che erano in vendita nei negozi e su quelle in preparazione?
Tutto si è fermato qui negli Stati Uniti. Ciò ha creato un eccesso di invenduto a magazzino. Una delle tematiche più calde legate al virus. Al culmine della chiusura, c'erano ancora tonnellate di prodotti sugli scaffali, i centri di distribuzione erano alla massima capienza, gli outlet saturi, un sacco di prodotti orfani di acquirenti.
Per quanto riguarda gli ordini futuri sono stati spesso annullati o sospesi. Quel che è certo è che tutti hanno tirato il freno a mano rispetto agli ordini a venire e le produzioni sono praticamente ferme. Anche perché la crisi di liquidità impedisce di muovere il mercato. È una barca nella tempesta che probabilmente si placherà solo il prossimo anno. Sicuramente per l'inverno ci saranno pochi ordini.
Nel 2009, dopo la grande recessione, assistemmo a un forte picco delle importazioni, perché si pensava che sarebbe stata una classica recessione a cui sarebbe seguita la ripresa, e ci ritrovammo con i magazzini pieni di merce invenduta. Dovremo evitare di commettere lo stesso errore e, nei prossimi 18 mesi, bisognerà valutare con attenzione gli acquisti. Per quanto riguarda l'invenduto di questa estate è probabile che parte delle collezioni possa rimanere valida per il 2021, ma la situazione rimarrà incerta ancora per molto tempo, anche perché per un bel po’ ancora non sarà chiaro l'impatto reale del virus sui consumi.

C'è nell'aria l'idea di cambiare le tempistiche delle stagioni, delle vendite, dei saldi?
È una discussione in atto da tempo, da prima della pandemia. Si riflette sul tema a causa della crescita dell’e-commerce o della voglia del consumatore di acquistare novità ogni 6 settimane, per esempio. Ma alcune scelte potrebbero favorire una parte del mercato e scontentarne un'altra. Certo, è probabile ci saranno, nell’immediato, degli spostamenti rispetto alle tempistiche tradizionali, ma credo che molte valutazioni verranno fatte a seguito di un lungo periodo di continui test rispetto alle reazioni dei consumatori.
Se in questo momento diverse soluzioni tecnologiche stanno consentendo ai compratori di valutare le collezioni estive 2021 da remoto, credo sarà difficile cambiare radicalmente la natura umana che desidera presenza. Una volta passata questa situazione penso torneremo alle nostre consuetudini. Rimarranno importanti cambiamenti, come la spinta per la digitalizzazione o la riduzione dei viaggi, ma non credo si potrà fare a meno della stagionalità, anche solo per gestire le differenze climatiche esistenti nelle diverse parti della nazione e del mondo.

Come la pandemia ha influenzato la produzione? 
Il 95% delle nostre importazioni proviene da tre Paesi: Cina, Vietnam e Indonesia. Sono state tutte molto colpite dal virus e quindi la produzione si è bloccata. In questo momento [primi giorni di giugno] non si può viaggiare verso il Vietnam, per esempio. Quindi è impossibile per il personale statunitense raggiungere di persona le fabbriche e lavorare con i partner locali per gestire la produzione ed effettuare i controlli qualità. 
Anche se ritengo che il vero problema sia non tanto quello della produzione, ma quello della mancanza di ordini. È una situazione che mi ricorda quanto accade quando passa un uragano: quando ti colpisce il primo fronte della tempesta tremano i muri (il blocco delle produzioni in Asia); poi ti trovi nell'occhio del ciclone, il cielo sembra sereno e l'atmosfera tranquilla (la ripresa delle produzioni); infine arriva il secondo fronte dell'uragano e le case crollano (il blocco degli ordini per lo stop dei consumi e il tentativo della distribuzione di rimanere a galla normalizzando la propria situazione finanziaria).

Cambierà, di conseguenza, la geografia delle produzioni?
Circa dodici anni fa il mercato americano, solitamente in crescita, ha iniziato a subire un calo nel volume dei consumi di calzature provenienti dalla Cina, e ogni anno il rallentamento prosegue. Se in quel momento si è cominciato a cercare delle alternative alla Cina, lo si è fatto per motivi economici (l'aumento del costo della manodopera, in qualche caso la carenza di materie prime, la necessità di diversificare i rischi…), oggi la faccenda si è ulteriormente complicata a causa delle tensioni politiche in atto su molti fronti. Perciò è ormai d'obbligo diversificare sempre di più il proprio panorama produttivo. La Cina rimarrà importante nel panorama produttivo, in particolare per chi vorrà produrre per il mercato cinese, ma è necessario trovare anche altri partner.

C'è qualche Paese che ritieni una stella nascente per la produzione di calzature?
Direi la Cambogia, che raccoglie anche i vantaggi di essere vicino a un Vietnam in forte espansione. Brasile, Filippine, e per certi aspetti anche il Messico, con cui intratteniamo rapporti da molti anni, potrebbero guadagnare un po' di volumi, ma coprono sempre una piccolissima fetta delle nostre importazioni. I grandi attori del mercato americano, infatti, sono affezionati ai propri partner asiatici, che già ne conoscono esigenze e aspettative, perciò è difficile che spostino le proprie produzioni senza mantenere vive relazioni già consolidate.
Anche sul lungo periodo, e anche immaginando una crescita dell'India, fatico a credere ci possa essere un Paese in grado di soppiantare la centralità della Cina.