Sospiro di sollievo per il temuto “no deal”: a quattro anni dal referendum sulla Brexit, Londra e Bruxelles il 24 dicembre hanno raggiunto finalmente un accordo, siglando un patto di libero commercio che evita di pagare i dazi. La posta in gioco è altissima: il trattato vale 700 miliardi l'anno, il solo interscambio tra Italia e Gran Bretagna nel 2019 è ammontato a 30 miliardi (20 di nostre esportazioni e 10 di importazioni, con un saldo largamente attivo per il nostro paese) e nel 2020 dovrebbe attestarsi a 25 miliardi nonostante la pandemia.

Ma cosa cambia per le imprese che lavorano sui due fronti? Anche se i dazi sono stati eliminati, le aziende dovranno adattarsi al nuovo regime doganale che comporteranno un aggravio dei costi. Ulteriore spettro, stimano gli analisti, è quello del deprezzamento della sterlina che potrebbe comportare una riduzione delle nostre esportazioni.

Il settore moda, che era in allarme per la paura di una “hard Brexit” che avrebbe aggravato la sua posizione economica ancora di più dopo la crisi innescata dal Covid-19, non è del tutto soddisfatto. Alla prova dei fatti dovrà confrontarsi con una montagna di burocrazia, tariffe di trading alte che faranno lievitare i prezzi, tempi di consegna allungati, disponibilità in stock più limitata.

Anche per la calzatura italiana non mancano i malumori. Il Regno Unito è uno degli storici mercati di riferimento per il Made in Italy calzaturiero: quinta destinazione dell'export (12,8 milioni di paia per un valore di 672 milioni di euro nel 2019, con una quota del 6.5 sulle vendite settoriali), mantiene la sua posizione nel ranking anche nel 2020, nonostante le ripercussioni dell'emergenza sanitaria che ha frenato gli scambi commerciali (-29.1% in quantità e -23% in valore) e manifesta una predilezione per il prodotto di fascia alta e medio-alta, come testimonia la crescita del prezzo medio del +20% tra il 2015 e il 2019. “La sottoscrizione di questo accordo peserà indubbiamente sulle relazioni commerciali con ripercussioni inevitabili anche sul comparto calzaturiero. – spiega Siro Badon, presidente di Assocalzaturifici, a Fotoshoe – Tradotto vuol dire aumento dei costi nelle procedure di importazione dei prodotti made in Italy. Non tanto riguardo le tariffe daziarie,  perché l’accordo raggiunto tra le due economie non prevede dazi ad valorem sulle calzature made in UE. Però, i processi di registrazione all’export, le formalità di attestazione di origine, per quanto non insormontabili grazie ai sistemi REX già implementati per altri accordi di libero scambio, avranno un’incidenza sui costi aziendali. Per non parlare poi dell’onere della prova in caso di verifiche sull’origine dei prodotti.  Sono tutti elementi che aggravano con costi e lavoro le procedure che in un rapporto commerciale con un paese UE non esistono”.

Siro Badon
La calzatura in bilico tra Uk e Ue


Assocalzaturifici si prepara comunque a sostenere le sue imprese ad andare incontro al mercato, aggiunge Siro Badon: “Sicuramente la Brexit comporterà costi più alti in merito alle operazioni doganali e ai processi di redazione documentale per le produzioni che verranno esportate in questo mercato. Una supply chain allungata potrebbe comportare controlli e verifiche verifiche per accedere ai dazi preferenziali riservati ai prodotti made in UE. Si prevedono dunque cambiamenti inevitabili per le nostre aziende che vogliono affrontare il mercato UK. La nostra associazione naturalmente fornisce loro tutta l’expertise necessaria con servizi calibrati ad hoc sui processi di riorganizzazione e ottimizzazione della filiera e di pianifica delle operazioni doganali”.

All'uscita dell'anno più nero della storia del commercio internazionale, questo deal ancora perfettibile potrà non aver soddisfatto tutti, comunque, il suo meccanismo si è avviato e non resta altro che trovare un modo di adattarsi alla nuova situazione.